← Torna indietro
“Quando parliamo di festa la nostra mente rincorre la memoria di
un tempo disimpegnato, ozioso e, caso mai, vacanziero. Un giorno,
o un periodo, differente dal ritmo quotidiano. Libero da impegni lavorativi,
libero da quelli scolastici, libero dalle costipazioni che assillano
giorno dopo giorno. Una interruzione. Una pausa per riprendersi.
Un momento inventato da chissà chi – quando non ha
evidentemente un marchio di fabbrica, solitamente laico – per tirare
i remi in barca e godersi finalmente quello spazio ritagliato d’autorità.
Una boccata d’aria, altrimenti rischieremmo di finire soffocati:
l’apnea troppo a lungo non può tenersi.
È vero. È proprio così. Questa è la festa della civiltà industriale e post-industriale che ha raso il suolo ove ha potuto. Nella lotta, poi, che storicamente si è venuta a creare con la Riforma protestante, secondo la quale la chiesa era responsabile di tollerare (e di fatto preservare) quelle feste connotate ancora da reminiscenze pagane, e perciò da riformare sradicandole, si è fatto tutto il possibile per cancellarle dalla storia. Un serio contributo all’eccidio delle feste, considerate espressione di superstizione popolare, l’ha dato infine l’Illuminismo. In quel che è scampato alle intemperie, perché ben radicato con millenni di radici, si rintraccia il contenuto sacrale delle feste a brandelli, a pezzi, a mozziconi e scampoli spesso sopravvissuti in ibride forme sincretistiche. O museali.
Di feste che conservano un battito autentico della Tradizione se ne contano davvero poche, e su queste antropologi e mass media si gettano a capofitto e sparano i riflettori mettendole a nudo, deprivandole in sostanza di quell’intimità col sacro che le ha fatte pervenire fino a noi. Con evidente soddisfazione, però, dobbiamo dire che esse non sono finite del tutto causa l’imbarbarimento consumistico postindustriale, manifestando qua e là sorprendente vitalità.
Nei simboli si cela molto più di quanto non si creda.
In dissonanza con la festa intesa come pausa, intervallo e svago, interruzione o alienazione del quotidiano, in origine essa scadenzava i ritmi del tempo circolare. Più volte abbiamo ricordato che il mondo più antico non conosceva differenza tra tempo sacro e tempo profano, nel senso che l’intera vita e ogni suo momento, e ancora, ogni elemento che la componesse – foss’anche una pietra o una zolla – era sacro non meno del resto. Per quanto impreciso, osiamo dire, però, che vi erano dei tempi considerati più sacri di altri, quelli in cui l’intera comunità sospendeva ogni attività per partecipare con entusiasmo a ciò che possiamo senza dubbio definire la renovatio, vale a dire l’occasione, passando per il Kàos, per recuperare la connessione col divino più alto e affrontare il futuro. È la revolutio (da revolvo, ritorno al punto d’origine). Infatti la festa, oltre ad avere sempre il carattere di un magnifico evento sacro, celebra la concezione del tempo che ritorna. Man mano sembra quasi che la festa assuma forme esorcistiche più che catartiche. Il tempus terribilis, che contraddistingue l’immersione nel Kàos della festa, batte un colpo di tamburo (di guerra) contro la morte. La festa è il rinnovamento della vita e il superamento della morte pur passando attraverso di essa. È Amor, a-mors: senza morte. La festa è amore. E ci sembra tutt’altro dall’interpretazione di Freud e Marcuse che l’hanno intesa come sfogo sociale o codificazione repressiva.
Che il tempo sacro non fosse differente da quello profano (che, abbiamo detto, non era nelle concezioni antiche), lo si legge bene nella composizione del calendario romano, un’alternanza non di giorni sacri e di giorni non sacri e comuni, ma di giorni fausti e di giorni non-fausti. Ne parla ampiamente lo storico delle religioni comparate George Dumèzil che propone un’incisiva classificazione nella quale sono contemplati i giorni fasti e nefasti, favorevoli (fàs vuol dire anche volontà divina) o sfavorevoli all’azione umana, e gli altri, festi e profesti, definiti da un punto di vista dell’appartenenza divina (festi)... [omissis]
Il tempo, allora, è sezionato in giorni dedicati al divino e in giorni all’azione umana, questi ultimi sub condicio del divino. Ovverosia che, quando Macrobio, per esempio, sostiene che nei giorni feriali era concesso occuparsi di affari privati e pubblici, egli sottintende, e non ha bisogno di fornire ulteriori spiegazioni, che queste azioni umane – come l’amministrazione dello Jus, la giustizia – erano sempre e comunque connesse alla sacralità della vita. La vita era sacra in tutte le sue manifestazioni. Ogni azione dell’uomo doveva essere in sintonia e nel rispetto degli dèi. Non era concepibile pensiero diverso. A questo punto consultiamo direttamente lo stesso Macrobio: “I giorni festivi furono dedicati agli dèi, quelli feriali furono lasciati agli uomini per gli affari pubblici e privati, quelli interrotti sono in comune agli uomini e agli dèi. Nei giorni festivi si fanno sacrifici, banchetti, giochi e feste pubbliche; in quelli feriali si svolge l’attività giudiziaria e politica, si fissano i rinvii e le scadenze, si dà battaglia; quelli interrotti comportano una divisione interna, non rispetto agli altri: in tali giorni infatti in certe ore è lecito amministrare la giustizia, in altre no”.
In sostanza, sintetizza Dumèzil, mentre “tutti i dies festi sono nefasti – tranne alcune eccezioni, che vanno considerate tali –, non è esatto il contrario reciproco (non tutti i dies profesti sono necessariamente fasti)”. L’esempio significativo del calendario romano, e le parole di Macrobio combinate con quelle di Dumèzil, fanno intendere anche altro, insito nel termine stesso di festa. L’etimologia della parola è di per sé esplicativa, specie se associata ad altri lemmi che hanno la medesima radice. Il latino festa ha la stessa radicale di feriae, anticamente inteso come giorno di preghiera e non come vacanza. Entrambi rispondono al greco thes che ha il senso anch’esso di pregare, invocare, avendo ovviamente al suo interno l’etimo di Dio, theôs. Già così basterebbe per restituire una connotazione sacrale al termine festa, ma, per proporre solo un cenno ulteriore, se facciamo derivare festa dal greco estiàõ, e quindi estìa, abbiamo ciò che brucia, il fuoco, e per estensione il focolare della casa, che si riannoda al sanscrito vastya, casa, dimora, lì ove è custodito il fuoco. Non per assonanza, ma per diretta diramazione, ecco Hestia (“prima” e “ultima” secondo gli Inni Omerici), e Vesta, il nome della Dea da cui derivano le Vestali, le sacerdotesse custodi del sacro fuoco perpetuo di Roma. Una correlazione di rilievo con Giano è segnalata da Sabbatucci: “Giano e Vesta aprivano, l’uno, e chiudevano, l’altra, ogni rito sacrificale. Con Giano si entrava in comunicazione con l’alterità divina e con Vesta si chiudeva la comunicazione e si “conservava” quanto di “nuovo” si era ottenuto mediante il rito”.
Non è un caso che il santuario di Vesta (aedes Vestae) abbia come caratteristica… la pianta circolare.”
Maurizio Ponticello
da “I Misteri di Piedigrotta” (Controcorrente edizioni)
Festa di Dioniso
La festa è evasione? Dedicato a chi ha dimenticato le radici della FESTA.
È vero. È proprio così. Questa è la festa della civiltà industriale e post-industriale che ha raso il suolo ove ha potuto. Nella lotta, poi, che storicamente si è venuta a creare con la Riforma protestante, secondo la quale la chiesa era responsabile di tollerare (e di fatto preservare) quelle feste connotate ancora da reminiscenze pagane, e perciò da riformare sradicandole, si è fatto tutto il possibile per cancellarle dalla storia. Un serio contributo all’eccidio delle feste, considerate espressione di superstizione popolare, l’ha dato infine l’Illuminismo. In quel che è scampato alle intemperie, perché ben radicato con millenni di radici, si rintraccia il contenuto sacrale delle feste a brandelli, a pezzi, a mozziconi e scampoli spesso sopravvissuti in ibride forme sincretistiche. O museali.
Di feste che conservano un battito autentico della Tradizione se ne contano davvero poche, e su queste antropologi e mass media si gettano a capofitto e sparano i riflettori mettendole a nudo, deprivandole in sostanza di quell’intimità col sacro che le ha fatte pervenire fino a noi. Con evidente soddisfazione, però, dobbiamo dire che esse non sono finite del tutto causa l’imbarbarimento consumistico postindustriale, manifestando qua e là sorprendente vitalità.
Nei simboli si cela molto più di quanto non si creda.
In dissonanza con la festa intesa come pausa, intervallo e svago, interruzione o alienazione del quotidiano, in origine essa scadenzava i ritmi del tempo circolare. Più volte abbiamo ricordato che il mondo più antico non conosceva differenza tra tempo sacro e tempo profano, nel senso che l’intera vita e ogni suo momento, e ancora, ogni elemento che la componesse – foss’anche una pietra o una zolla – era sacro non meno del resto. Per quanto impreciso, osiamo dire, però, che vi erano dei tempi considerati più sacri di altri, quelli in cui l’intera comunità sospendeva ogni attività per partecipare con entusiasmo a ciò che possiamo senza dubbio definire la renovatio, vale a dire l’occasione, passando per il Kàos, per recuperare la connessione col divino più alto e affrontare il futuro. È la revolutio (da revolvo, ritorno al punto d’origine). Infatti la festa, oltre ad avere sempre il carattere di un magnifico evento sacro, celebra la concezione del tempo che ritorna. Man mano sembra quasi che la festa assuma forme esorcistiche più che catartiche. Il tempus terribilis, che contraddistingue l’immersione nel Kàos della festa, batte un colpo di tamburo (di guerra) contro la morte. La festa è il rinnovamento della vita e il superamento della morte pur passando attraverso di essa. È Amor, a-mors: senza morte. La festa è amore. E ci sembra tutt’altro dall’interpretazione di Freud e Marcuse che l’hanno intesa come sfogo sociale o codificazione repressiva.
Che il tempo sacro non fosse differente da quello profano (che, abbiamo detto, non era nelle concezioni antiche), lo si legge bene nella composizione del calendario romano, un’alternanza non di giorni sacri e di giorni non sacri e comuni, ma di giorni fausti e di giorni non-fausti. Ne parla ampiamente lo storico delle religioni comparate George Dumèzil che propone un’incisiva classificazione nella quale sono contemplati i giorni fasti e nefasti, favorevoli (fàs vuol dire anche volontà divina) o sfavorevoli all’azione umana, e gli altri, festi e profesti, definiti da un punto di vista dell’appartenenza divina (festi)... [omissis]
Il tempo, allora, è sezionato in giorni dedicati al divino e in giorni all’azione umana, questi ultimi sub condicio del divino. Ovverosia che, quando Macrobio, per esempio, sostiene che nei giorni feriali era concesso occuparsi di affari privati e pubblici, egli sottintende, e non ha bisogno di fornire ulteriori spiegazioni, che queste azioni umane – come l’amministrazione dello Jus, la giustizia – erano sempre e comunque connesse alla sacralità della vita. La vita era sacra in tutte le sue manifestazioni. Ogni azione dell’uomo doveva essere in sintonia e nel rispetto degli dèi. Non era concepibile pensiero diverso. A questo punto consultiamo direttamente lo stesso Macrobio: “I giorni festivi furono dedicati agli dèi, quelli feriali furono lasciati agli uomini per gli affari pubblici e privati, quelli interrotti sono in comune agli uomini e agli dèi. Nei giorni festivi si fanno sacrifici, banchetti, giochi e feste pubbliche; in quelli feriali si svolge l’attività giudiziaria e politica, si fissano i rinvii e le scadenze, si dà battaglia; quelli interrotti comportano una divisione interna, non rispetto agli altri: in tali giorni infatti in certe ore è lecito amministrare la giustizia, in altre no”.
In sostanza, sintetizza Dumèzil, mentre “tutti i dies festi sono nefasti – tranne alcune eccezioni, che vanno considerate tali –, non è esatto il contrario reciproco (non tutti i dies profesti sono necessariamente fasti)”. L’esempio significativo del calendario romano, e le parole di Macrobio combinate con quelle di Dumèzil, fanno intendere anche altro, insito nel termine stesso di festa. L’etimologia della parola è di per sé esplicativa, specie se associata ad altri lemmi che hanno la medesima radice. Il latino festa ha la stessa radicale di feriae, anticamente inteso come giorno di preghiera e non come vacanza. Entrambi rispondono al greco thes che ha il senso anch’esso di pregare, invocare, avendo ovviamente al suo interno l’etimo di Dio, theôs. Già così basterebbe per restituire una connotazione sacrale al termine festa, ma, per proporre solo un cenno ulteriore, se facciamo derivare festa dal greco estiàõ, e quindi estìa, abbiamo ciò che brucia, il fuoco, e per estensione il focolare della casa, che si riannoda al sanscrito vastya, casa, dimora, lì ove è custodito il fuoco. Non per assonanza, ma per diretta diramazione, ecco Hestia (“prima” e “ultima” secondo gli Inni Omerici), e Vesta, il nome della Dea da cui derivano le Vestali, le sacerdotesse custodi del sacro fuoco perpetuo di Roma. Una correlazione di rilievo con Giano è segnalata da Sabbatucci: “Giano e Vesta aprivano, l’uno, e chiudevano, l’altra, ogni rito sacrificale. Con Giano si entrava in comunicazione con l’alterità divina e con Vesta si chiudeva la comunicazione e si “conservava” quanto di “nuovo” si era ottenuto mediante il rito”.
Non è un caso che il santuario di Vesta (aedes Vestae) abbia come caratteristica… la pianta circolare.”
Maurizio Ponticello
da “I Misteri di Piedigrotta” (Controcorrente edizioni)
Festa di Dioniso